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‘A Nuvena: il viaggio di uno zampognaro

‘A Nuvena: il viaggio di uno zampognaro – Natale ed estate hanno due sinonimi: Michael Bublè ed Enrique Iglesias. Ora, anche se con mio grande stupore i due poco li ho intercettati quest’anno (persa un po’ tra chi ha visto lei che bacia lui che bacia me noi voi essi), è comunque difficile che non interferiscano con le hit del momento. Che fastidio quando, mentre cerchi di salvare il gelato sgocciolante sul cono, Enrique ti urla nelle orecchie, (come a prenderti in giro): “Bailandooo!

Tutt’altra storia quando entri dal cinese di turno per comprare la palla blu enorme con la renna argentata, e fai finta di non vedere che i brillantini delle corna stanno già cedendo (perché hai proprio bisogno di quella palla) e toh, White Christmas cantata Michael è lì pronta a supportare la tua causa. Finisci quindi per spendere tre euro e cinquanta.

È facile abituarsi a determinate routine, come quella del periodo natalizio: l’iter degli addobbi e la fretta di comprare i regali, di capire dove si cena e cosa si mangia. È facile abituarsi identificare dei momenti grazie a qualcosa di specifico, come Bublè ed Iglesias. Forse raramente oggi, si riconoscono le cose per ciò che veramente sono. E come sono?

Spesso mi sono domandata come i miei nonni trascorrevano il Natale da piccolini. Nell’ultimo periodo, seppur malaticci ed infermi, trovavano il modo di incontrarsi almeno una volta al giorno in una stanza e ascoltavano in silenzio canzoni napoletane alla radio. Solo ora, sentendole assiduamente tre sere a settimana, ne ricordo alcune trasmesse alla radiolina dall’antenna sbieca. I nonni l’ascoltavano con la stessa grazie ed ingenuità che ha caratterizzato la loro vita. Le canzoni napoletane sono un po’ come i cibi di una volta considerati “poveri”: pochi ingredienti ma essenziali, che bastano a riempirti lo stomaco e, se vogliamo essere mielosi, il cuore.

‘A Nuvena per me e, è così: essenziale.

Le zampogne iniziali riportano ad un tempo sospeso di una notte di Natale antica: fuori è freddo, magari nevica, le campane della messa di mezzanotte suonano, le strade deserte alla fioca luce dei lampioni, si sente cantare da lontano, un’eco. Nelle case ci si stringe nel calore.

Uno zampognaro di un paese distante, s’incammina per Napoli di primo mattino, la moglie a casa, in procinto di partorire. Suona allegro, ma allegro non era: pensava alla moglie e sospirava,

e ‘a zampogna, ‘e suspire s’abbuffava.

‘A Nuvena (la recita delle preghiere ripetute per nove giorni consecutivi che precedono il Natale) è stata pubblicata da Salvatore di Giacomo ed Enrico di Leva nel 1887, e tratta del tema napoletano della pastorale natalizia. La trama della canzone tesse le sue vicende personali con quelle della Natività, includendo il sonno di Gesù nella grotta

senza manco ‘a miseria ‘e ‘na cuperta,

durmeva, ‘mmiez’â vacca e ô ciucciariello,

cu ll’uocchie ‘nchiuse e cu ‘a vucchella aperta.

E ullèro, ullèro

che bella faccella,

che bella resélla,

faceva Giesù

quanno ‘a Madonna

cantava: “Core mio, fa’ nonna nonna”.

 

Poi l’arrivo di una lettera: due bambini sono nati.

Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo,

e nuje pigliammo ‘e guaje cchiù alleramente.

Tasse, case cadute, freddo e gelo,

figlie a zeffunno

Un intreccio che spezza il cuore. Un brano cristiano per eccellenza abbraccia parole che restituiscono tutto il peso delle responsabilità: quella, in primis, di provvedere al diritto ad una vita degna di essere vissuta.

Tuttavia, “nun fa niente”.

Chissà chi è il complice del coraggio di cui si premunisce lo zampognaro: ma basta tanto per riprendere a camminare, suonare, sperare.

Per definizione, Natività significa nascita. Siamo abituati ora ad identificarla con quella di Gesù, ma che si sia credenti o meno, il Natale è divenuto, nel corso dei secoli, un giorno di forzata ri-nascita. Nessuna predica su come amore, compassione, fede speranza e carità debbano essere messi in pratica tutto l’anno e non solo a feste comandate: è come cominciare la palestra lunedì, come i buoni propositi, come ripromettersi di non mettere il sottofondo di Michael Bublè mentre apparecchi per il cenone, o di non fare il conto alla rovescia né con Amadeus né con Federica Panicucci. Poi però ti ritrovi sempre un Gigi d’Alessio che sotto i fuochi d’artificio ti ricorda di “maii, non mollare mai!”.

Non importa veramente come e quando si decide di rinascere, purché che lo si faccia. Nella semplicità di un gesto, come ascoltare insieme la radio; nella bellezza di una canzone, che con delicatezza, senza imporlo secondo dettami sociali, ricorda che ricominciare è un diritto.

Come quello di ascoltare il cavolo che ci pare, purché finisca bene.

Have yourself a very merry Christmas.

O anche:

Ullèro, ullèro.

Suonate e cantate

Sparate, sparate

che è nato Gesù!

Gesù Bambino.

E la Vergine Maria lo tiene in grembo!

 

Di Alessia Thomas 

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