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Napoli e il Cibo: That’s Amore

Napoli e il Cibo: That’s Amore – ‘O buono ‘o capiscono pure ‘e scieme, dice sempre papà, quando il mio cagnolino annusa scodinzolante i piatti di mia madre lontani anni luce dai suoi croccantini: si parla di parmigiana di melanzane, polpette al sugo, alici fritte o in tortiera, formaggi. E ovviamente pane. Io sono cresciuta con le pennette al sugo che mia nonna faceva navigare nell’olio, con gli spaghetti alle vongole la domenica; per la mia famiglia il fingerfood non esiste: non è neanche abbastanza grande per assaggiare e verificare se la pietanza è cotta o c’è la giusta quantità di sale. Il gourmet non è fatto per noi, soprattutto se vivi in una città dove basta che svolti l’angolo e ritrovi in quest’ordine: una panineria, una noccioleria, una spritzeria una graniteria. Qualche passo più in là ed eccoti tre pizzerie e quattro bar. Napoli è circondata da ogni tipo di pietanze e sì, ora il proliferarsi di posti dove mangiare sta quasi soffocando la città, ma non è mai stato un mistero che a Napoli s magna buono. Veniamo al dunque.

 

Una relazione straordinaria tra la canzone napoletana e il cibo, affonda le sue radici nel Cinquecento: Napoli è indubbiamente una delle capitali gastronomiche d’Italia, e la sua affinità con la musica è altrettanto forte. Per molti grandi poeti, era quasi inevitabile unire le due passioni più grandi della città. Questa relazione spesso rappresenta un’allegoria alla bellezza femminile, il carattere delle donne, il sesso, ambiguità che persiste nella lingua italiana fino ai giorni nostri. Dalle liriche del Medioevo ad oggi, con menzione speciale per il lavoro di Gian Battista Basile in “Lo cunto de li cunti,” il legame tra cibo e canzone napoletana è rimasto invariato, seguendo il susseguirsi del tempo e la storia contemporanea. Scopriamo quali canzoni lo celebrano.

 

Napoli e Cibo: ‘O Guarracino e Maruzzella

O Guarracino[1] è tratto da un’opera datata alla fine del Settecento, Il Guarracino, la cui paternità è rimasta sconosciuta. Questo brano può essere considerato di importanza fondamentale dal punto di vista scientifico: è, infatti, una vera e propria fiaba d’amore che ruota attorno a personaggi insoliti: un guarracino, una comune castagnola, e una sardina, precedentemente fidanzata con un tonnetto allitterato. La trama si sviluppa quando il tonnetto, grazie a una rivelazione della patella, scopre la nuova relazione tra la sardina e il guarracino, innescando una rissa tra fazioni di pesci rivali. La lite si scatena quando il tonnetto scopre la nuova relazione e coinvolge altre creature marine nel confronto. La canzone, tuttavia, termina bruscamente perché il cantante esaurisce il fiato, chiedendo ai presenti una bevanda ristoratrice in onore dei contendenti. Grazie alla canzone, molti studiosi sono stati in grado di risalire ai metodi di pesca utilizzati nella Napoli borbonica e persino ai tipi di cibo consumati durante quel periodo storico.

Che bediste de sarde e d’alose!

De palaje e raje petrose!

Sarachedientece ed achiate,

scurmetunne e alletterate!

Pisce palumme e pescatrice,

scuorfenecernie e alice,

mucchiericciolemusdee e mazzune,

stellealuzze e storiune,

merluzzeruongole e murene,

capodoglieorche e vallene,

capituneauglie e arenghe,

cieferecuoccetracene e tenche.

E chi più ne ha più ne metta.

Non dimentichiamoci di Maruzzella[2]. Il titolo è un vezzeggiativo del nome Marisa, ma in dialetto lingua può assumere altri significati, come ad esempio quello di chiocciolina oppure piccola ciocca di capelli intrecciati. Carosone, voce del famoso brano, prese anche parte all’omonimo film di Luigi Capuano del 1956, nei panni di Renato: musicista profondamente innamorato di Maruzzella ma ahimè, il suo cuore batte per Salvatore, amante della sua matrigna. La storia è complessa, ma cucinare un bel piatto di spaghetti con le maruzzelle meno. E a proposito di spaghetti, il 25 ottobre c’è stato un compleanno speciale: dal 1998, l’Italia è la capitale mondiale della pasta, tanto da celebrare il World Pasta Day. C’è poco da meravigliarsi a dirla tutta: è difficile trovarsi davanti un bel piatto di pasta al sugo con tanto di parmigiano e basilico e non pensare a quando Alberto Sordi prima di lanciarsi sul piatto dice: Maccarone m’hai provocato ed io te distruggo.

Napoli e il Cibo: ‘A rumba

Il brano “A rumba de’ ‘e Scugnizze” è tratto dalla commedia di Viviani, L’Ultimo Scugnizzo, del 1932. La rumba dipinge lo scugnizzo[3] nel vivace e colorito mercato napoletano, dove voci dei venditori ambulanti si contrappongono agli schiamazzi dei passanti gamberi, scarola riccia, finocchi, aglio, la pizza fritta (o meglio ‘o battilocchio), peperoni, olive, cocco, castagne, angurie, panini, gelati, pizze, polpi, arachidi (o meglio ‘e nucelline americane) e grano per la pastiera. Una sfilata di richiami che dipingono mestieri e personaggi, il fruttivendolo con le “scarole ricce p’a’ nzalat”, i “fenocchie”, “’o spassatiemp” (la frutta secca), l’aglio, il tutto garantito a kilometro zero dal “mo t’ ‘e ccoglio e mo t’’e vvengo” declamato chiassosamente dal venditore. I venditori irrompono sempre più e l’avventore è stordito dai colori e profumi e grida mentre fa il suo trionfale ingresso il venditore di cocco con il suo “magnáteve ‘o cocco, magnáteve ‘o cocco” subito incalzato al ritmo della rumba da un fruttivendolo con i suoi “pallune p’ ‘allésse” e “mellune chine ‘e fuoco” (castagne da lessare e meloni rossi come il fuoco). Ma ormai la rumba degli scugnizzi è nel vivo con le sue note che man mano entrano nel cuore e prosegue affrescando altre voci, altri venditori, altri prodotti. E allora spuntano “marenne” (colazioni), mele cotogne, “pizze cu ‘alice”, “lazze p’e scarpe”, una sontuosa “capa d’ ‘o purpo”, “nocelline americane”, “’o gran p’a pastiera”. Quando la musica finisce l’incanto delle tradizioni popolari, della musicalità, della sagacia del popolo partenopeo, persiste.

La canzone napoletana e il cibo: Tu vulive ‘a pizza.

Nel 1966 il palco del Festival della canzone Napoletana vede esibirsi una strana coppia: Aurelio Fierro, napoletano e Giorgio Gaber, milanese, che presentano ‘A pizza.

Col testo di Alberto Testa e la musica di Giordano Bruno Martelli, questa è una storia di chi proprio, nun se capisce: lui, giovane pronto a conquistarla in tutti i modi, la porta in uno dei ristoranti migliori della città, per offrirle ‘nu brillante e quindice carate. Ma lei voleva solo na bella pizza.

La corte continua, ma la ragazza è di difficile conquista. Ed anche dopo il matrimonio lei desidera una sola cosa: ‘a pizza.

La canzone arrivò seconda al festival del 1966, ma il ritornello cantato da Gaber in quel lontano 1966 è diventato famoso da New York a Tokyo: il brano omaggia non solo la passione napoletana per il cibo, ma un inno all’italianità e alla gioia di mangiare bene.

‘O buono ‘o capiscono pure ‘e scieme, dice mio padre. Ma possiamo anche non essere così drastici. A me piace pensare che il buono unisce tutti, anche chi per antonomasia, vive agli antipodi, come Milano e Napoli. Indovinate cos’è che celebra la prima strofa della famosa “O mia bela madunina”, l’inno milanese?

A diesen la canzon la nass a Napuli

E francament g’han minga tutti i tort

Surriento, Margellina tucc’i popoli

I avran cantà on milion de volt.

 

[1] Tra le interpretazioni più celebri vi sono quella di Sergio Bruni nel 1956, Roberto Murolo e La Nuova Compagnia di Canto Popolare.

[2] Brano del 1954 musica di Renato Carosone e scritto da Enzo Bonagura.

[3] www.treccani.it/vocabolario/scugnizzo/

 

Di Alessia Thomas 

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